L’estrema destra ne ha sempre letto l’aspetto reazionario, ma il filosofo romano era una figura complessa, oggi vogliamo dare lui uno sguardo senza pregiudizi. Ringraziamo le bellissime analisi del prof. Massimo Donà, per aver colto (da accademico) quello che noi "liberti" abbiamo colto da tempo, confermando le nostre analisi su Julius Evola, un filosofo troppo importante per poter essere legato solo ad una parte politica.

A un tavolo delle Grotte dell'Augusteo, pochi stanzoni semibui di quello che oggi sarebbe un night, sedeva, 23enne assorto, Julius Evola: così solitario e preso dal suo misterioso cogitare che non sembrava accorgersi, in quelle notti romane degli anni Venti, del circolare di camerieri e ragazze che tra i tavoli andavano cercando clienti. Amico di Giovanni Balla e, senza essere futurista, di Tommaso Marinetti, dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale Evola era tornato a Roma per tuffarsi nell'esperienza dadaista, spinto, come racconterà nel Cammino del cinabro (la sua autobiografia spirituale) «dall'insofferenza per la vita normale e dal senso dell'inconsistenza degli scopi che impegnano normalmente le attività umane». Taciturno, e accuratissimo nella persona – come gli amici lo ricordano nelle sere dell'Augusteo? il barone era preda di una grave crisi esistenziale, dove il limite dell'io si scontrava con la fame di assoluto e «l'uso di certe sostanze» lo portava «verso forme di coscienza in parte staccata dai sensi fisici».

Fu l'incontro con la Gnosi tradizionale e in particolare con una frase del Buddha a distoglierlo dal suicidio. A 24 anni il barone chiudeva col dadaismo, la pittura (i suoi quadri sono la massima espressione figurativa dadà in Italia) e la poesia. Chiudeva anche con la droga. Le porte d'un'altra percezione s'erano per lui aperte. Nel 1956 son passati trent'anni e un'altra guerra mondiale – una piccola rivista (Domani) pubblica un articolo di Julius Evola dal titolo Cause e effetti.

In esso, a proposito di proibizionismo in materia di stupefacenti, polemizzando in modo violento contro quella che chiama «la commedia delle libertà democratiche» Evola scrive: «Non diversamente da quella americana del 1914, sulla quale è stata ricalcata, la legge nostrana colpisce curiosamente non solo lo spacciatore di droghe, ma anche chi ne fa personalmente uso. Il che (commenta Evola) è uno dei casi dell'impertinente ingerenza che, deprecata finché si tratta di Stati totalitari, è solo ribadita in clima democratico». Insomma Evola, la bête noire della cultura italiana, il liberticida per antonomasia, va oltre qualsiasi formulazione anarchica o "antagonista" quando parla di libertà: perché l'obiettivo della sua polemica non è solo lo Stato etico ma anche «La società che si mette a fare il pedagogo con la frusta, e proprio la dove essa, con la democrazia, proclama che il singolo è ormai giunto a ogni responsabilità e maturità».

Lo sguardo di Evola è scevro da ogni moralismo e ipocrisia: egli non crede che ogni singolo sia ormai giunto a responsabilità e maturità, tutt'altro (in questo Evola resta un pensatore radicalmente aristocratico)? ma nessuno per lui ha il diritto, tanto meno lo Stato o la società, di condizionare o inibire le scelte di chicchessia, di conculcare le libertà individuali. E questo malgrado il fatto che «le masse usino gli stupefacenti per compensare il vuoto di un'esistenza divenuta priva di ogni senso più profondo, per stordirsi, per quietare un insostenibile disagio interiore». Curioso che a destra della destra (qualcuno si diverte ancora a metterlo li Julius Evola) ci sia la libertà. E non solo. Ci sia anche una curiosità e una spregiudicatezza che le tesi di alcuni disobbedienti fanno sorridere a confronto di quelle di Evola: in particolare sugli stupefacenti..

«Si sa che nell'antichità e ancor oggi presso certi popoli detti primitivi – scrive Evola – gli stupefacenti furono conosciuti. Ma di essi si fece un uso particolare. Un non diverso uso si fece di molti ritmi adoperati per pervenire all'estasi e perfino il tabacco che, in estratti nell'America centrale e settentrionale fu impiegato anche come coadiuvante in processi intesi a pervenire a delle visioni lucide e illuminatrici: in questi usi si mirava a un contatto con qualcosa di ulteriore».

Ma Evola, già nel 1956 si spinge ancora oltre e a proposito dell'uso terapeutico delle sostanze psicotrope (oggi attualissimo) presenta la relazione di un medico tedesco Walter Frederking che aveva usato clinicamente la mescalina ottenendo con essa la risoluzione di disturbi fisici psichicamente originali, quasi nello stesso senso del trattamento psicoanalitico.

Notando la «rassomiglianza sorprendente delle esperienze riferite dai pazienti col mistero della trasformazione quale è di importanza capitale in tutte le grandi religioni e specialmente nei misteri». Ma anche l'ultimo Evola di Cavalcare la tigre riserva non poche sorprese. È l'Evola dell'"anarchia di destra" che prende atto che ogni unità organica nel mondo moderno «la casta, il ceppo, la nazione, la Patria» – si è dissolta o sta dissolvendosi. Il fondamento di questi olismi «non è una forza viva legata ad un significato, bensì la mera forza dell'inerzia». In questa riflessione rientrano le considerazioni già sviluppate a proposito dell'insorgere sulla scena spirituale e sociale dell'individualizzazione, dell'affermarsi cioè di un paradigma individualista rispetto al tramontare di un paradigma olistico comunitario e delle meta-narrazioni simboliche e culturali che lo avevano sostenuto.

Le ideologie (di cui è venuto di moda decretare la morte) apparivano del resto come residui delle antiche religioni a loro volta, secondo la dottrina tradizionale difesa da Evola, forme epigonali di una primordiale sapienza. Il suo può dirsi un nichilismo compiuto, seppure attivo: egli infatti non rinuncia a offrire a quelli che definisce "individui differenziati" una prospettiva di resistenza interiore, puramente individuale, abbandonando qualsiasi tentativo di pensare la possibilità di rettificare gli attuali ordinamenti politico statuali in senso tradizionale, in ordinamenti politici cioè portatori di un crisma di ordine superiore.

Anzi, secondo Evola:

«le inevitabili strutture centralistiche e ipertrofiche degli Stati moderni che moltiplicano gli interventi e le restrizioni anche quando vengono conclamate le "libertà democratiche" vanno addirittura a colpire quel che può ancora restare in fatto di vincoli e di unità di tipo organico; il limite di questo livellamento sociale avviene quando intervengono forme dichiaratamente totalitarie».

Quella di Evola, da questo punto in poi è dunque una prospettiva radicalmente individualista: ciò che vive della critica alla modernità è adesso la possibilità, per gli "individui differenziati", di avere meno complicazioni possibili con la società e dunque con tutto quanto sia politica e questione pubblica, dimensioni ormai consegnate a leggi infraumane di prepotenza e di arbitrio. All'"individuo differenziato" evoliano sta a cuore solo la possibilità concreta e oggettiva di poter perseguire una libertà superiore, gli è indifferente ogni ordine politico ormai delegittimato (perché desacralizzato) ad esercitare un qualsiasi potere coercitivo sugli individui.

Su tutti gli individui, e non solo su quelli che Evola definisce "differenziati"; distinguo cui certo non badano gli Stati moderni quando, per interessi economici e politici, inviano indifferentemente al macello uomini comuni e uomini eccezionali. Se questo è vero, se ogni ordine politico non è altro che il paravento istituzionale di minoranze organizzate interessate alla conquista del potere e alla rapina delle risorse economiche, se ormai la società non è altro che la somma di singoli individui, allora il solo concetto di libertà comprensibile all'uomo moderno, il solo che possa corrispondere alla sua "equazione personale" non potrà che essere, in via puramente logica, "la libertà negativa", libertà intesa cioè come assenza di impedimento alle azioni e ai possessi di un individuo da parte di altri individui o da parte dello Stato.In fondo è la stessa libertà di cui parla Locke, «la libertà di disporre e regolare la propria persona, i propri beni, le proprie azioni e la propria intera proprietà».

Ripercorrendo sommariamente la storia del liberalismo, Evola ne metteva in risalto, accanto a quelli negativi, gli aspetti positivi. Dopo aver riconosciuto che le origini del liberalismo erano state «feudali e aristocratiche», che esse vanno riferite a una nobiltà locale gelosa delle proprie libertà minacciate dagli abusi della corona, Evola ammette anche che «il primo liberalismo inglese ebbe un carattere aristocratico, fu un liberalismo da gentelman. Sussiste tuttora in Inghilterra», aggiunge Evola, «questo aspetto sano e in fondo apolitico del liberalismo: non come un'ideologia politico-sociale, ma come l'esigenza che il singolo possa godere di un massimo di libertà, che la sfera della sua privacy, della sua vita personale privata, sia rispettata e venga evitata l'intromissione di un potere estraneo e collettivo».

È del resto esattamente questo il liberalismo che auspicava Evola, quello che «rifacendosi alla sua tradizione pre-ideologica e pre-illuminata» si limita «a propugnare la massima libertà possibile della sfera individuale privata, a combattere ogni abusiva intromissione in essa di poteri pubblici e societari».Non male dunque per un'autore che di volta in volta è stato definito maestro dell'estrema destra, reazionario irriducibile, teorico fascista: definizioni (che tutti, seguaci compresi, hanno indotto in confusione) cui però sfugge un particolare: l'atomo di verità di un pensiero insieme arcaico e modernissimo che fa di Evola qualcosa d'ancora inedito e di esplosivo e per questo di inclassificabile. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Nel 1926 Evola scrive L'individuo e il divenire del mondo, nel 1927, Teoria dell'individualismo assoluto, nel 1930 Fenomenologia dell'individuo assoluto. L'unico stirneriano impallidisce di fronte alla formulazione evoliana di un IO assoluto, che ha il dovere di farsi sufficiente a se medesimo, la cui libertà è tale da mettere paura.

Quel no-global sul “Secolo” era Julius Evola

La “Fondazione Julius Evola”, guidata da Gianfranco de Turris, ha appena pubblicato a cura di Alberto Lombardo una raccolta di articoli del “maestro della Tradizione”, originariamente pubblicati nel lungo intervallo di tempo 1930-1968 e parzialmente proposti nel 1983 col titolo (confermato) di Civiltà americana (Controcorrente 2010, pp.86, 10 euro – www.controcorrenteedizioni.it; www.fondazionejuliusevola.it). Come ricorda Lombardo nel suo saggio introduttivo (“La tenaglia si è chiusa”), si tratta di articoli evoliani che «riguardano principalmente gli sviluppi del costume nordamericano negli anni del secondo dopoguerra».

Julius Evola (per chi non lo conoscesse: artista Dada, teorico dell’“individuo assoluto”, punto di riferimento del tradizionalismo europeo, ma soprattutto divulgatore e critico fra i più importanti nel Novecento delle dottrine spiritualiste), ha sempre riservato un’attenzione particolare a ciò che accadeva al di là dell’Atlantico, per tre motivi sostanziali: il primo riguardava l’avversione alla civiltà del danaro e capitalistica, alla società dei consumi e dello spettacolo e all’omologazione tipiche della mentalità americana; il secondo riguardava le vicende politiche del nostro Paese (dunque patto Atlantico sì-patto Atlantico no…); il terzo (considerato, a volte, qualche passo al di qua del negativo), concerneva le dottrine e le tendenze culturali dell’Occidente e dunque quel che accadeva nel controverso ambito intellettuale, proprio all’interno del “mondo moderno”. Nel primo caso l’avversione evoliana alla “civiltà americana” era abbastanza netta; nel secondo, la necessità di avere degli alleati (in politica) consigliò al filosofo di origini siciliane di tenere un atteggiamento prudente (e dunque dire di “sì” all’influenza politica americana in Italia); ma anche nel terzo caso le posizioni evoliane restavano sfumate, perché il filosofo prendeva in considerazione i fenomeni culturali provenienti dal “nuovo mondo” e li analizzava dall’interno al meglio delle proprie possibilità.

Da questo punto di vista, l’opinione fortemente antiamericana nata nei giovani su presunta “influenza” evoliana, oggi è completamente da riformulare; “nuovo” e opportuno riferimento, a parte il libro curato da Lombardo, potrebbe essere anche il saggio evoliano del 1968, La gioventù, i Beats e gli anarchici di Destra contenuto all’interno del volume L’arco e la clava. Un saggio nel quale Evola affronta il rapporto fra l’uomo di destra (o “anarchico di destra”, formatosi cioè precedentemente sul suo Cavalcare la tigre) e i fenomeni di ribellione provenienti dagli Stati Uniti d’America.

Ma andiamo con ordine. Fra gli articoli evoliani presentati da Lombardo, due sono stati pubblicati proprio sul nostro Secolo, il primo il 27 gennaio del 1953 e il secondo il 28 luglio del 1964. Il meno recente dei due (“Libertà dal bisogno” e umanità bovina, il titolo) è un pezzo di profonda critica della mentalità materialistica americana (da questo punto di vista assai simile a quella di derivazione marxista), secondo cui la meccanizzazione della società americana e la liberazione dell’uomo dal bisogno del lavoro materiale, condurranno presto o tardi all’edificazione di una società “felice”. Lo si pensava negli anni Cinquanta (già da prima e per qualche anno ancora), ma non sarà mai così. Evola scrive infatti che le «premesse vere per un’esistenza e una civiltà superiore sono sempre di carattere interno, dipendono cioè da quel che l’uomo – un dato tipo umano – è, spiritualmente, senza essere necessariamente legate alle circostanze esterne ambientali: proprio al contrario di come il marxismo la pensa». Oggi sembra pacifico, ieri lo era molto meno…

Evola ha ragione dunque, ma forse il taglio fortemente polemico dell’articolo (più avanti si dice che: «Questo qualcosa che manca e che, andando di questo passo, sempre mancherà all’uomo moderno, questo qualcosa senza di cui nessuna civiltà superiore potrà sorgere, non v’è “libertà atlantica” che potrà darlo…»), o magari le conoscenze o le ragioni “intellettuali” dell’autore di Rivolta contro il mondo moderno, non gli permettono di comprendere che anche l’America – qui non vogliamo certo difendere niente e nessuno – è capace di offrire “soluzioni” in controtendenza rispetto alla civiltà “dell’avvenire” di cui l’autore parla con giusta ironia. E sia dal cotè conservatore sia da quello progressista.

Richard Drake professore di storia all’Università del Montana, rispondendo a due precise domande sul rapporto fra Evola e gli Stati Uniti (Il maestro della Tradizione, Controcorrente, 2008), ha avanzato alcune critiche circa l’antiamericanismo evoliano. «Per certi versi l’analisi evoliana degli Stati Uniti fu giusta e penetrante», dice Drake, «mi riferisco soprattutto al contenuto del suo libro L’Arco e la clava. Evola capì molto bene i punti deboli dell’individualismo americano. I suoi commenti sulla letteratura americana della generazione “beat” sono ben fondati. Quando Evola scrive degli Stati Uniti, in veste di critico culturale, merita quasi sempre di essere letto. Ma non è tutto … Evola non capì nulla delle fonti della potenza americana, non solo della capacità produttiva del Paese, ma anche delle sue tradizioni religiose, che egli giudicò, appunto, come sistemi decisionali poco più che assurdi. In La Democrazia in America, Alexis De Tocqueville segnalò queste tradizioni come la vera fonte dell’alto livello di fiducia del Paese in se stesso e della sua missione nel mondo. L’idea di Tocqueville rimane valida, oggi, anche e soprattutto quando queste tradizioni vengono macchiate… Ma Evola non vide nulla delle tesi profonde di Tocqueville. Nella sua tendenza a giudicare gli Stati Uniti come un Paese storicamente invalido, Evola perdeva contatto con quel realismo che quasi sempre illuminava i suoi scritti culturali».

Il secondo articolo scritto da Evola per il Secolo (Servilismi linguistici, il titolo), almeno per una parte è apprezzabilissimo, perché mette in “stato d’accusa” l’utilizzo degli americanismi nel nostro Paese anche a rischio di storpiare il significato delle frasi utilizzate; d’altra parte lo stesso Pier Paolo Pasolini, cui certe critiche alla società moderna possono essere affiancate a quelle evoliane (si pensi al consumismo sessuale), “accusava” in quegli anni la lingua italiana di essere diventata una lingua tecnica, piena di vocaboli che non c’entravano niente né coi costumi “nazionali” né con la tradizione letteraria.

rapporto fra l’evolismo e la ribellione beat

Andiamo però, velocemente, al saggio evoliano pubblicato nel 1968, in relazione al rapporto fra l’evolismo e la ribellione beat dell’ultima metà del secolo. La base si partenza della protesta beat è perfettamente condivisa da Evola, il quale però giudica la prassi del beat come una reazione istintiva a un male “reale” (ma ricordiamo che anche Nietzsche partiva dalla valorizzazione dell’istinto), le “pratiche” beat – quelle della pericolosità del vivere – vengono poi affiancate a quelle della “Via della mano sinistra” di cui Evola ha scritto in Metafisica del sesso ma con un deficit di parte positiva (sappiamo che le spinte verso il “sacro” cui parla Evola coincidono solo in parte con le pratiche Zen). Le strade fra evoliani e beat sono comuni, come potrebbero essere comuni le strade di dieci-cento-mille ribelli “nietzscheani” e “post-nietzscheani” insomma. Semplificando potremmo dire che il rapporto Evola-generazione beat (ovviamente parliamo dei suoi massimi esponenti) è molto simile a quello fra Evola e Nietzsche, un rapporto che qui si gioca tutto sul rifiuto ragionato del benessere e dell’ottimismo, sulle istanze di libertà (dunque libertarie) o, per utilizzare un linguaggio che strizza l’occhio alle pratiche orientali, di “liberazione”.

È questo peraltro quello che intende Lombardo quando tratta, con obiettività, il rapporto anch’esso da approfondire fra Evola e le nuove istanze dei ribelli alla globalizzazione. «L’idea di un “Evola no global” sarebbe di per sé corretta», chiosa Lombardo, il problema anche stavolta è quello di individuare i “militi” del pensiero e della prassi no-global. Ma quelli veri, però… Difficile che fra questi possano rientrare i figli di notai o prefetti o categorie non proprio “svantaggiate” colte da pulsioni “democratiche” legate all’acne giovanile. Né fra i no-global rientrano «personaggi di vario tipo che nei fine settimana, smessi gli abiti borghesi, si danno agli espropri proletari di Dvd o di pranzi a base di crostacei», scrive Lombardo. Escluso, ovviamente, il ricorso alla violenza, la questione si gioca e si giocherà dunque sul rapporto effettivo fra libertà (tutte le libertà) e rispetto verso i popoli e le minoranze. La demagogia è bene stia fuori dalla porta, naturalmente.